È sempre una questione di compatibilità

17.06.2020

di Federica Carlino

Circa 7 anni fa si stava per mettere, forse in maniera inconsapevole, solo il primo tassello del lungo e sofferto caso Ilva. Questo negli anni ha infatti continuato a riaprire una vecchia ferita: salvare il lavoro o la salute?

Il primo campanello di allarme è stato quando il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio, preoccupato dei risultati della perizia epidemiologica disposta dalla giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, che provava l'altissimo livello di inquinamento dell'area circostante l'Ilva, chiedeva aiuto, o meglio, chiedeva come procedere alle alte cariche istituzionali di allora.

Una vasta inchiesta per reati ambientali e di inquinamento portò al sequestro dell'edificio e nell'ambito dell'incidente probatorio si vedevano indagati Emilio Riva, suo figlio Nicola, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento siderurgico, e Angelo Cavallo, responsabile dell'area agglomerato. A loro carico erano ipotizzate le accuse di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. Il gip aveva scritto che l'impianto era stato causa e continuava a esserlo di «malattia e morte (...) calpestando le più elementari regole di sicurezza». Allo stesso tempo però i lavoratori e i sindacati difendevano l'impianto e l'azienda.

Salute o lavoro?

Molte volte l'uomo è incosciente della grande responsabilità che ha nelle proprie mani, prende decisioni opinabili, giustificate da necessità e bisogni che la società stessa ti porta a ricercare, a prescindere se queste siano veramente indispensabili per vivere. Il lavoro non può esser considerato di certo una necessità futile, ma lo diventa nel momento in cui lavorando fai solo del male a te stesso e agli altri, creando rischi per la vita di te lavoratore in primo piano e dei tuoi familiari, abitanti dei paesi limitrofi all'azienda. In questo caso, non è più valido il detto "se non si lavora si muore" se poi muori di cancro lavorando. È una grossa voragine, che spacca in due la popolazione italiana, nonostante la risposta sembra a tratti banale. Non si vuole ammettere che il prezzo da pagare per un colosso come questo, che produce da solo poco meno di 9 tonnellate l'anno di acciaio, qualcuno lo deve pur pagare e molte volte a pagarlo però, non sono i grandi industriali che non si assumono l'onere di investire sull'impianto per renderlo più sicuro possibile, sebbene siano loro stessi i primi ad assorbire il guadagno creato da questo mostro dai frutti d'acciaio.

La soluzione al quesito sembrava esser quindi passare la responsabilità a qualcun altro, così in amministrazione straordinaria nel 2016 viene bandita una gara per vendere l'ILVA, con requisiti di partecipazione che spaziavano da un piano industriale, a uno di riqualificazione ambientale sino ad un'offerta economica che potesse mettere a tacere gli operai rappresentati dai più grandi sindacati che fino a quel momento non avevano perso alcun minuto per indire scioperi e battaglie che vedevano come primo slogan il riacquisto dei posti di lavoro, messi a repentaglio per una stupidaggine che poteva essere quella dell'inquinamento ambiente, dopo tutto quale città non è inquinata al giorno d'oggi? È forse questo allora il motivo principale con il quale si sono sempre giustificate le potenze dell'ex Ilva: l'ignoranza del principio "chi inquina paga". Sì perché qui a risponderne sono solo gli operai, vittime di un potere nato e gestito male, altrimenti questi attori imprenditoriali non si sarebbero presi tante libertà come quella di rischiare in un ambito di vitale importanza.

L'1 novembre 2018 l' Ilva entra ufficialmente a far parte del colosso franco-lussemburghese ArcelorMittal, con partecipazioni di Intesa Sanpaolo e inizialmente di Marcegaglia. L'8 settembre 2018 il vicepremier Di Maio aveva promesso alla popolazione e alla stampa una riduzione delle emissioni fino al 20% per controbilanciare le continue lamentele e ai casi crescenti di tumori nell'area circostante. Nel gennaio 2019 la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo accoglie i ricorsi presentati nel 2013 e 2015 da 180 cittadini che vivono nei pressi dello stabilimento di Taranto e condanna l'Italia per non aver tutelato il diritto alla salute dei cittadini. Il 5 novembre 2019 Arcelor Mittal comunica l'intenzione di recedere dal contratto di cessione, procedendo alla restituzione ad Ilva, in amministrazione straordinaria, entro 30 giorni.

Ad ora sono circa 3.300 gli esuberi, «ArcelorMittal avrebbe fatto presente che lo scenario, rispetto all'accordo di marzo, è profondamente cambiato a causa del lockdown. Ottimo alibi per ritardare ancora la ripartenza dell'Altoforno 5 e continuare a smantellare lo stabilimento e a non proseguire le opere ambientali», sostiene Bentivogli. A smentire però queste dichiarazioni è stato lo stesso governo che ha confermato l'accordo firmato a marzo tra i commissari dello stabilimento e ArcelorMittal, sostenendo che per il coinvestimento sull'ex Ilva è stata individuata Invitalia. Nel frattempo, dicono i sindacati, nell'indotto gli stipendi non vengono pagati da mesi e in molti casi non arrivano nemmeno le risorse degli ammortizzatori sociali.

L'ex llva di Taranto non è un impianto ambientalmente compatibile, dunque va riconvertito, ma lo devono fare i padroni dell'acciaio lucente, non lo devono fare gli operai o lo stato. La conclusione di portare le produzioni nei paesi dove c'era meno opposizione sociale non è stata strategica se con il tempo si indirizza la popolazione in una condizione di estremo disagio. Rimangono quindi questi grossi impianti e adesso si cerca di vendere questa battaglia per l'Ilva come una battaglia a favore dei cittadini piuttosto che della salute dell'ambiente, ma il problema non doveva crearsi. È giusto che l'ambiente e le persone stiano bene ma è anche giusto che l'uomo rivendichi il proprio posto di lavoro, compatibilità e riqualificazione possono essere le chiavi di lettura per una possibile risoluzione del caso che è ancora in via di sviluppo, chissà se qualcuno prenderà la decisione che da anni si tenta di nascondere dietro un dito.

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