La prescrizione: dalla Costituzione alle riforme degli ultimi vent'anni
di Eugenio Chemello
Prima che il Coronavirus colonizzasse le pagine dei giornali, italiani e non, l'argomento che regnava indiscusso fra aule parlamentari, talk show televisivi e dibattiti casalinghi era la prescrizione, quel meccanismo per cui, trascorsi alcuni anni, "scade" e si estingue il processo penale a carico di un cittadino senza che si arrivi a sentenza definitiva.
Ritorniamo dunque a parlarne, iniziando dalla fine: l'1 gennaio 2020 entra in vigore la riforma della prescrizione promossa dal Ministro Bonafede (M5S) dopo un periodo di vacatio legis di quasi un anno. La novella viene infatti pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 9 gennaio 2019, sotto la rubrica "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici", ufficiosamente: "Legge Spazzacorrotti". Il testo ha seguito l'iter parlamentare (quasi una novità in anni in cui gli atti più importanti di un programma politico sono promossi secondo i noti passaggi della decretazione d'urgenza e della successiva apposizione di fiducia sulla legge di conversione) e viene promulgato dalla maggioranza del tempo, composta da Movimento 5 Stelle e Lega. Dalla sua pubblicazione alla effettiva entrata in vigore delle norme passa quindi un anno, e nel frattempo cade il Governo Conte e si insedia il Conte bis, sorretto da una maggioranza completamente diversa: M5S, Pd, Leu e il neonato partito di Renzi, Italia Viva; e nel cui ambito si riconferma Bonafede a Guardasigilli.
La riforma è una delle bandiere del Movimento 5 Stelle, che fa da sempre della morale giustizialista il suo connotato più distintivo: la missione che fin dal 2013 caratterizza il partito è quella di ripulire l'Italia, e in particolare la classe dirigente, la "casta", dalla disonestà e dalla corruzione. Questa narrativa è sorretta dal dualismo e duellismo che dal 1992 contrappone potere politico e potere giudiziario. Dagli anni di Tangentopoli a quelli dei processi Berlusconi, si è affermata nell'immaginario comune una magistratura limitatrice e persecutrice dell'avidità della classe politica. E i grillini, da sempre schierati su posizioni fortemente legalitarie, hanno promesso per anni che, una volta al governo, avrebbero "restituito" al potere giudiziario gli strumenti per reprimere la disonestà dei politici.
A questa legge seguirà una più complessiva riforma del processo penale, già confezionata nel disegno di legge delega approvato in Consiglio dei Ministri il 13 febbraio 2020. Questa proposta di legge è integrata dal Lodo Conte bis (dal nome dell'avvocato e parlamentare di Leu che l'ha ideato), che contiene modifiche proprio alla riforma di Bonafede, modifiche resesi necessarie per giungere ad un compromesso fra le nuove forze politiche di maggioranza. Pd, Leu e i renziani avevano infatti aspramente criticato la riforma del 2019 dai banchi dell'opposizione, salvo poi essere all'esecutivo nel momento in cui questa entrava in vigore.
La novella si pone dunque come l'ultimo di una serie di momenti riformatori che negli ultimi quindici anni hanno visto governi di destra e di sinistra alternarsi nel proporre nuove discipline sulla materia della prescrizione, dalla Legge ex-Cirielli del 2005 alla Riforma Orlando del 2017. Periodicamente, la forza di maggioranza del momento si impegna a risolvere in via definitiva il problema della prescrizione, additando a quest'ultimo il ruolo di epicentro di tutte le ingiustizie ed inefficienze del sistema penale italiano. Difatti, la prescrizione è da tempo la protagonista dello scadente discorso politico che descrive la materia penale stessa come un'urgenza di interesse nazionale.
Ma per comprendere quali novità esprima la riforma di Bonafede, ricostruiamo il significato e il funzionamento di questo istituto.
In ambito civile la prescrizione consiste nell'estinzione di un diritto poiché non esercitato per un significativo lasso di tempo. Il principio a sostegno di tale norma può essere individuato nell'esigenza di risolvere, all'insegna della certezza, il contrasto fra una situazione di diritto (la titolarità ed esercitabilità del diritto in questione) e una situazione di fatto (l'assenza di interesse all'esercizio di tale diritto). La seconda prevarrà sulla prima allorché per anni quest'ultima non sia stata fatta valere: a titolo esemplificativo, il creditore che non agisce per ottenere il proprio credito perde diritto ad esso, e il debitore che per anni ha versato nell'incertezza è ora libero di riutilizzare le proprie risorse.
Da principi completamente diversi prende le mosse l'istituto della prescrizione in ambito penale. Questa è causa estintiva del reato, e opera laddove, alla commissione del fatto di reato, non faccia seguito, entro una certa data, una sentenza irrevocabile di condanna. È la rinuncia dello Stato a far valere la propria pretesa punitiva.
L'istituto è accettato storicamente all'unanimità dagli studiosi di diritto penale, ed è presente, in forme a tratti diverse, nella quasi totalità degli ordinamenti analoghi al nostro per storia e cultura giuridica. Il motivo è semplice: la prescrizione poggia le basi su principi irrinunciabili per qualunque sistema penale che voglia dirsi realmente liberale.
Innanzitutto, dal punto di vista della finalità general-preventiva della pena, è facilmente intuibile come l'efficacia di questa sia proporzionale ai tempi decisionali della giustizia: se dopo anni dal fatto alcuna pena risulta irrogata, difficilmente si otterrà il risultato di distogliere altri dal commettere fatti analoghi.
Altrettanto può dirsi sotto l'aspetto della finalità di prevenzione speciale della sanzione penale, secondo una concezione del carcere, purtroppo non del tutto superata, come mezzo di allontanamento degli individui pericolosi: anche a voler riconnettere l'esigenza di sanzionare il cittadino alla sua presunta pericolosità sociale, si giungerà a ritenere la sanzione inutile nel momento in cui questi, per diversi anni, non abbia manifestato tale pericolosità.
Ma il discorso assume una portata ancora maggiore se si inquadra la sanzione penale nell'unica vera cornice di significato che la Costituzione ci dà: la finalità rieducativa della pena, come fissata all'art. 27 della legge fondamentale, dovrebbe essere il solo parametro atto a valutare l'utilità di una sanzione inflitta anni dopo il fatto. E come potrà ritenersi efficace un rimprovero penale, una formula coercitiva di rieducazione del cittadino, se questi l'avvertirà ad eccessiva distanza temporale dal fatto commesso?
Viene meno, da tutti i punti di vista, l'interesse stesso dello Stato a che la pena venga inflitta.
A ciò si aggiunge un ulteriore principio costituzionale: il diritto al processo giusto e di ragionevole durata (art. 111 della Costituzione). Immediato è il collegamento fra lo strumento della prescrizione e il principio di ragionevole durata del processo. L' imputato, innocente fino a prova contraria, non potrà sottostare a tempo indefinito all'incertezza del processo accusatorio: la presunzione di innocenza del singolo prevarrà a fronte dell'incapacità della giustizia statale di confermare il contrario entro un tempo ragionevole. Ma l'art.111 ci ricorda altresì che il processo, anche se lungo, deve essere giusto: e anche da questo passaggio trae le radici l'istituto in questione. Il valore delle prove, l'affidabilità delle indagini, la generale qualità degli elementi del processo scemeranno col decorso del tempo, e con essi si ridurranno i margini di certezza con cui è possibile condannare un cittadino (si pensi ad esempio alla qualità e affidabilità di una testimonianza resa numerosi anni dopo il fatto).
Concludendo sul punto, di fronte all'esigenza repressiva dello Stato, si pone il diritto inviolabile del singolo a veder tutelata la propria dignità. Che tale diritto si incrini nel momento del processo penale è una necessità inevitabile, ma se una simile situazione si protraesse a tempo indeterminato, allora verrebbe a mancare il legame stesso che intercorre fra uno Stato costituzionale e i suoi consociati.
Se sulla sostituibilità di un simile strumento giuridico non ci si è mai, almeno apertamente, espressi, è sul funzionamento della prescrizione che si sono giocate le riforme degli ultimi anni, in particolare sul criterio di calcolo e sulle cause di sospensione ed interruzione del decorso temporale.
La formula inizialmente prevista dal codice Rocco del 1930 consisteva nel calcolare gli anni necessari a che il reato scadesse in prescrizione sulla base di "classi" di reato: queste si individuavano per fasce di pena - reati puniti con reclusione non inferiore a 10 anni, si prescrivevano in 15; se la reclusione era non inferiore a 24 anni, la prescrizione avveniva in 20; e così via; infine si consideravano, e si considerano tutt'ora imprescrittibili i reati puniti con l'ergastolo.
Tale criterio originario, fissato all'art.157 del codice, veniva sostituito nel 2005 ad opera della legge c.d. "ex-Cirielli" (aneddotto interessante sul nome: lo stesso promotore, il deputato dott. Cirielli, sconfesserà la riforma a seguito delle modifiche apportate in aula, che a suo parere ne avevano stravolto significato ed intenti). Il tempo prescrizionale è rapportato non più ad una precisa classe di reato, ma al massimo della pena edittale previsto per ogni singola fattispecie. Ad esempio, il reato di peculato, che prevede una pena dai quattro ai dieci anni e mezzo di reclusione, si prescriverà in dieci anni e sei mesi. Il risultato complessivo della riforma è stato quello di accorciare sensibilmente i tempi prescrizionali.
Sul piano del calcolo prescrizionale si inseriscono poi gli effetti della seconda parte della riforma: la rinnovata disciplina, ora fortemente legalitaria, per non dire giustizialista, della recidiva. Se da un lato l'art.157, al secondo comma, fissa la regola per cui, nel calcolare il tempo prescrizionale, non si dovrà tener conto di aggravanti e attenuanti, dall'altro stabilisce un'eccezione: la prescrizione si allungherà significativamente per gli autori recidivi. Anche questo istituto è dunque strutturato secondo il generale impianto normativo introdotto nel 2005, ampiamente criticato da studiosi e professionisti: si attua una differenziazione sulla base della recidiva, separando e regolando diversamente due categorie di reati secondo un parametro non oggettivo e relativo al fatto in sé, come la tradizione liberale e garantista richiede, ma puramente soggettivo. Rafforzare un confine discriminatorio che separa incensurati e recidivi significa reintrodurre il concetto illiberale di "reato d'autore": non è ciò che fai che determina l'intervento punitivo dello Stato, ma ciò che sei.
A questo intervento legislativo fanno seguito innumerevoli critiche (prime fra tutte da parte del suo stesso ideatore) per l'incoerenza con cui si accentuano, da un lato, istanze ultra-garantiste nei confronti di una parte della società, il casto mondo degli incensurati; e dall'altro, si inaspriscono tecniche repressive con cui punire la fetta criminale e "irrecuperabile" del Paese.
La successiva riforma del 2017 tuttavia è improntata a risolvere solo uno dei due problemi, il meno urgente: lavorando sulle cause di sospensione e interruzione del decorso temporale della prescrizione, la legge Orlando ne allunga i termini in svariate situazioni. Al contrario di quanto sostenuto da alcuni giornalisti ed esponenti della magistratura infatti, il nostro modello contiene già numerose cause di sospensione ed interruzione della prescrizione. Le cause di interruzione, che operano col compiersi di numerosissimi atti e fatti giudiziali (ad esempio, la sentenza di condanna, l'interrogatorio reso davanti al P.M. o al giudice, la richiesta di rinvio a giudizio, ecc), fanno sì che il tempo prescrizionale ricominci a decorrere ex novo. Non è dunque assolutamente automatico che un reato venga prescritto proprio nel mezzo di un processo, come invece si sostiene da più parti: a volte basta un solo atto giudiziale perché la prescrizione "si azzeri". Vi è però un limite, stabilito dall'art.161: il tempo necessario a prescrivere il reato non può aumentare di più di un quarto del tempo standard (es: invece di 10 anni, si potrà arrivare a 12 e mezzo), salve numerose deroghe per i reati più gravi, tra cui spicca, ancora una volta, l'eccezione per gli autori recidivi.
Le cause di sospensione dei termini prescrizionali, elencate all'art. 159, si hanno, oltre che in casi disciplinati da norme extra-codicistiche, nei casi di: autorizzazione a procedere, deferimento della questione ad altro giudice, sospensione del procedimento per ragioni delle parti o dei difensori, rogatorie all'estero, e, soprattutto, per il periodo che intercorre fra una sentenza e quella di grado successivo. Si è deciso però di calmierare anche tale norma: la sospensione si avrà fra una sentenza e l'altra, ma non per un tempo superiore ai 18 mesi. In questo modo si bilancia l'esigenza di non veder scaduto un procedimento penale quando è ancora in corso con l'altrettanto rilevante necessità di non protrarre all'infinito tale procedimento in nome della lentezza burocratica. L'imputato quindi non vedrà scadere in prescrizione il reato a lungo, ma non tanto a lungo perché si vanifichi l'essenza stessa dell'istituto in questione.
È proprio su questo passaggio che si inserisce la riforma del 2019, avvenuta a brevissimo tempo dalla precedente (e quindi forse senza che di quest'ultima se ne sentissero gli effetti). Si prevede ancora una sospensione dei termini dopo una sentenza, ma non è contemplato un limite massimo: arrivati a sentenza di primo grado, la prescrizione è sospesa sine die.
Dunque l'operazione riformatoria ruota unicamente attorno alla soppressione di questo tassello, motivandola con l'esigenza di assicurarsi che i processi siano portati a termine, e che non cadano nelle "trappole" degli avvocati, i quali sfruttano la prescrizione per vincere le cause.
È doveroso tuttavia ricordare un dato: dei circa 125 mila reati contestati che annualmente scadono in prescrizione, solo per un quinto di questi (circa il 23%, Fonte Ministero della Giustizia) la prescrizione interviene dopo la sentenza di primo grado. Fra i tanti procedimenti non toccati dalla Spazzacorrotti, la maggior parte si estingue prima ancora di arrivare in tribunale, prima ancora, dunque, che entrino in gioco gli avvocati azzeccagarbugli.
In conclusione, sarebbero meno di trentamila i processi "salvati" dalla riforma, a fronte del numero, sfiorante il milione, di processi che ogni anno sono definiti in Italia: ciò significa il 3% del totale. Questi processi, e i cittadini ivi imputati, rischiano di finire in una bolla e non giungere mai a termine. E i risultati, ancora incerti sul piano repressivo, si faranno però sentire sicuramente sull'efficienza delle Corti di Appello. In alcune di queste (Venezia, Torino, ma anche Catania, Perugia e Roma) i processi estinti per prescrizione ammontano a quasi il 40% del totale (Fonte Sole 24Ore) : una mole di giudizi che adesso rimarrà bloccata fra la lentezza della burocrazia giudiziaria e una nuova forma di ergastolo sociale: Fine Processo Mai.