Le polemiche inutili e il buon senso
di Eugenio Chemello
Se c'è una cosa che irrita in modo quasi viscerale tantissimi italiani è la richiesta di cambiare alcune prassi, e alcune leggi, che ledono i diritti civili delle minoranze etniche e religiose, delle donne, dei disabili, di chiunque non sia eterosessuale e cisgender.
Spesso portate avanti da esponenti di sinistra (Buonisti, Professoroni, Veterofemministe, Lobby LGBTQ+, Radical chic e Dittatori del politically correct), queste richieste e prese di posizione sono percepite come false, pretestuose, antipatiche (antipatiche?). In una parola, polemiche. Vengono classificate come idee promosse da chi non ne ha davvero bisogno, e lo fa solo per avere visibilità; come le attrici di Hollywood, milionarie, che denunciano maschilismo, o gli atleti di colore che manifestano contro il razzismo.
Le reazioni sono le più varie: c'è chi ricorda ai presunti progressisti quali siano i veri problemi del Paese (i diritti delle minoranze non rientrano mai fra questi), chi li accusa di voler sovvertire la natura (o la fede, l'identità etnica, la morale, ecc), chi difende principio di uguaglianza e libertà d'espressione (se si fa una legge contro l' omotransfobia, se ne deve fare una anche contro l'eterofobia), chi si scaglia contro il pensiero unico, e lo fa parlando sulla televisione nazionale, in prima serata. C'è chi, infine, con aristocratica nonchalance, addita queste polemiche come ridicole, le liquida con una battuta, e conclude con un moderato "se la poteva anche evitare". Insomma, va bene tutto, ma ci vuole anche un po' di buon senso. L'intero dibattito politico, in fondo, viene spesso interpretato secondo questa traccia: polemiche futili da una parte, fatte per apparire migliori; pragmatismo e concretezza dall'altra, per risolvere i problemi.
Ho ripensato a due fatti recenti, esempi classici di questo scontro fra realtà e vuote ideologie.
Il primo: al seggio elettorale dove lavoro come scrutatore viene a votare una nota avvocatessa per i diritti civili e politica di Bologna, che, dopo aver votato, fotografa i banchi a cui sono attaccati i cartelli uomini e donne. Chiunque sia andato a votare sa che i registri elettorali sono divisi così, un faldone rosa con le iscritte donne da una parte, e un faldone blu con gli iscritti uomini su un altro banco. Si entra e ci si mette in coda al banco giusto. E le persone transgender?, si chiede l'avvocatessa sui social, pubblicando le foto, loro come fanno? Sono costrette a fare coming out davanti ad estranei, perché magari, iniziato il percorso di transizione, non è ancora stato rettificato il nome sul documento d'identità; forzate a spiegare perché, nonostante l'aspetto, siano nella fila "sbagliata". Il rischio di potersi trovare in una simile situazione di disagio (disagio, non fastidio) spinge migliaia di cittadine e cittadini transgender a non recarsi alle urne.
L'altro fatto recente è quello del litigio in televisione fra De Gregorio e Sallusti: la prima si offende perché il collega, dibattendo con lei in televisione - non chiacchierando al bar - la chiama per nome, al contrario di quello che fa con gli altri presenti, tutti uomini.
La giornalista fa notare che in una trasmissione televisiva, in cui ci si confronta con toni spesso accesi, è prova di rispetto rivolgersi all'interlocutore come costui si rivolge a noi: se si dà del lei, lo si fa entrambi, se ci si chiama per cognome, lo si fa con tutti. Niente di più, niente di meno. La risposta, piccata, è "mi scusi dottoressa, dimenticavo che lei non ama mischiarsi con gli ignoranti". Tradotto: chiamare una donna per nome, mentre agli altri uomini ci si rivolge col cognome, e accusare proprio la donna in questione di avere complessi di superiorità.
Chi dei due sta polemizzando inutilmente, quando basterebbe applicare la comune educazione?
Lo stesso dubbio viene riguardando il primo caso: da una parte si propone, onde evitare disagi e violazione della privacy a cittadini e cittadine che si recano a votare, di rivedere la suddivisione dei registri elettorali, magari secondo alfabeto (ma poi, vi immaginate, ad esempio, i corsi universitari che invece di essere divisi dalla A alla L e dalla M alla Z, fossero distinti in uomini e donne?). La società non si taglia secondo un rigido binarismo di genere, quindi non è pratico dividere i registri elettorali così. Dall'altra parte si dice che no, i registri vanno benissimo suddivisi così, si è sempre fatto così, e anche se non costa nulla cambiare, non è una buona ragione per farlo: se ai transgender dà fastidio, amen. Cambiare la società, negando la realtà, o cambiare dei semplici registri elettorali?
Alle polemiche sterili si risponde con soluzioni di buon senso, non ci sono dubbi: il punto è ricominciare a distinguere le une dalle altre.