Quanto inquina una ricerca su Google?

28.11.2019

di Eugenio Chemello

Che Internet non sia pura magia nessuno ne dubita, però, inevitabilmente, mantiene una certa nota di "immaterialità" nel nostro immaginario: che cos'è il cloud, dove sta la rete? Dati, documenti, video e fotografie, una volta online, sono privi di supporto? L'archiviazione remota quanto è remota? Diciamo che in generale, per i non addetti ai lavori, esiste una divisione molto semplice tra memoria fisica, rappresentata da hard disk e altri supporti tangibili (quello che sta dentro al nostro pc, chiavette usb, cd, memory card), e memoria intangibile, "immateriale", sospesa da qualche parte come una nuvola, il cloud appunto. E proprio come i bambini andando a scuola scoprono che le nuvole sono materialissime, anche noi scopriamo che il cloud è qualcosa di non molto diverso da un insieme di server fisicamente localizzabili. Una ricerca su Google, un acquisto online, un post su Facebook o un Tweet richiedono la presenza di server, dislocati da qualche parte, che elaborino la richiesta : sono le famose server farm, unità informatiche gigantesche composte da migliaia e migliaia di computer, occupano complessivamente una superficie pari ad 1800 chilometri quadrati ( diciamo tre volte Singapore) e consumano energia, tanta energia.

Si calcola che l'attività di trattamento di big data (insieme di dati talmente ampio e complesso da richiedere grande capacità di calcolo per estrarre informazioni) ad opera delle server farm abbia prodotto nel 2018 una quantità di CO2 superiore all'intero traffico aereo mondiale. Alcune banche dati consumano tanta elettricità quanto una città di un milione di abitanti. Questi enormi data center infatti necessitano di energia in quantità notevole per alimentare i processori, e in quantità quasi superiore per garantire il funzionamento degli impianti di raffreddamento, senza i quali le macchine non potrebbero lavorare. E buona parte di questa energia viene dispersa: il New York Times rivelò in un' inchiesta come i colossi dell'industria ICT, i big del web, facessero funzionare le macchine sempre al massimo della potenza, anche quando il traffico non era al picco, sprecando il 90% dell'energia assorbita (30 miliardi di watt all'anno, circa l'equivalente di 30 centrali nucleari), e questo per scongiurare l'ipotesi di ritrovarsi improvvisamente sovraccarichi di dati e non riuscire a trattarli per deficit energetico. In definitiva, Internet ha un impatto sul pianeta stimato nel 3% delle emissioni inquinanti: nel 2007 era l'1%, è previsto entro il 2040 che la cifra si aggiri intorno al 14%.

Tra questi operatori ve ne sono alcuni che si distinguono per il tentativo di ridurre il proprio peso ambientale, ricorrendo ad energie rinnovabili (è il caso di Google e Apple) o, più spesso, semplicemente acquistando crediti di carbonio per compensare la propria produzione inquinante. C'è chi sposta le sedi dei propri data center in Svezia e Finlandia, per risparmiare sul raffredamento ed ottimizzare il consumo energetico. Ma c'è anche chi, come Netflix, responsabile di almeno un terzo del traffico Internet di tutto il Nord America, fa ancora ampio ricorso a risorse non rinnovabili. Gli esempi tutt'altro che positivi si moltiplicano in Cina e nel Sud-Est asiatico (ad esclusione della "virtuosa" Corea del Sud). E vi sono poi fenomeni, come quello delle blockchain (l'esempio più famoso è il sistema Bitcoin), che presentano criticità allarmanti: le server farm dove si realizza il mining (processo di elaborazione di calcoli complessi per risolvere una singola transazione economica, la cui riuscita "regala" al miner nuova moneta virtuale) sono spesso situate in paesi dove l'energia costa poco e non ci sono norme restrittive contro le emissioni, quali Cina e Mongolia, basate ancora sul carbone. I primi sei sistemi al mondo di criptovalute consumano circa la stessa energia dell'intero paese del Belgio e la sola rete Bitcoin utilizza più energia della Nigeria, un paese di 186 milioni di abitanti.

Inutile aggiungere che il circuito comprende anche noi, anzi, è tarato esattamente sulle nostre esigenze: ognuno di noi (quella metà fortunata del mondo che ha accesso ad Internet) compie ricerche sul web, guarda film in streaming, condivide informazioni sui social network e fa il back-up dei propri messagi, delle proprie fotografie, della propria vita sui servizi di cloud storage. Le ricerche fatte per scrivere questo breve articolo, l'upload del file sul nostro sito, la condivisione sui social, sono semplici, velocissime operazioni che hanno un peso ecologico. Una qualsiasi ricerca su Google consuma quanto accendere una lampadina da 60 watt per 17 secondi e comporta l'emissione di 0,2 grammi di CO2 (dati irrisori, ma moltiplicati per il numero di ricerche fatte ogni secondo in tutto il mondo, il risultato ha un aspetto diverso). E non ci sono dubbi sul fatto che continueremo a farne, ma qualcosa deve cambiare. E forse, proprio in mezzo a noi, si affacciano nuove idee: quattro ragazzi di Bologna hanno appena inventato "Cubbit", il primo sistema di cloud storage diffuso, che al posto di immagazzinare i dati in un dispendioso e inquinante data center in mezzo al deserto dell'Arizona, costruisce una rete fra gli utenti, ognuno dei quali fornito di un piccolo dispositivo collegato alla rete domestica. Più sono gli utenti, più spazio c'è nella rete, e tutto al costo energetico di un piccolo hard disk "domestico".

Se è vero che le idee cambiano la nostra vita, speriamo ne arrivino tante altre, perché l'umanità avrà ancora bisogno di Internet, ma avrà anche bisogno di un pianeta dove vivere.

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